La cura necessaria

Melania Guida

Invito a deporre. Il proprio corpo, i propri affanni, l’Io intransigente. Sospendere il luogo e lo spazio dell’esistere, il corpo appunto. Disancorarsi, esibire la propria amabile fragilità, affidarsi. Deporre le armi dell’agire per lasciare affiorare, così suggerisce  Jean-Luc Nancy, la distesa di un’anima, la sua venuta in presenza che evoca il toccare e l’essere toccato. “Da quanto tempo non ci rimboccano le coperte?”. La domanda di Valeria è come un proiettile silenzioso. Il ricordo vacilla, apre varchi di interdizione. Per qualche istante fluttuo nei vissuti e nei rimossi. Valeria mi sorride, comprensiva, delicatamente avvolgente e mi accompagna nello spazio-laboratorio. E’ tutto pronto, in ordine. E’ tutto bianco. Coperte, materassi e cuscini. E’ “Care” l’installazione site-specific pensata per la Chiesa di San Severo al Pendino. Un dispositivo perfetto per indurci all’abbandono, perché il corpo deposto, lasciato andare eppure sostenuto perché ancorato in alcuni punti al sostegno dell’altro, quel corpo ecosomatico, ibrido, custode di memorie consce e inconsce possa finalmente esprimere tutto il suo potente vocabolario. Come nasce l’idea? “E’ un dono dello yoga- racconta lei che da anni è impegnata nella ricerca sulla sacralità del corpo- un certo tipo di disciplina: lo yoga restorative che ho praticato con Audrey Favreau. Si tratta di una pratica meditativa che permette di calmare la mente, fuoriuscire dal caos, equilibrare il sistema nervoso e rilassare il corpo. Sostanzialmente, l’aiuto a rilasciare lo stress cronico coltivando “l’arte del far niente”. Un rimedio efficace per i nostri stili di vita stressanti, troppo accelerati, Napoli poi è una città centrifuga, eccessivamente veloce. Il “restorative” è un esercizio che ho subito desiderato trasporre in opera d’arte”. In che modo? “Durante la pratica ho avvertito l’urgenza di creare uno spazio dedicato ai valori ritrovati all’interno di questa disciplina che sono la lentezza, la cura, la relazione verso se stessi e con l’altro. Va detto però che lo spazio da solo non è sufficiente. Deve essere abitato, ci vogliono le persone”. Che è poi l’indispensabilità dell’altro, l’esposizione allo sguardo altrui, unica modalità capace di attestare l’esistenza. “E’ solo nell’incontro, nella polarità della relazione, nella con-divisione affettiva- sottolinea Valeria- nella possibilità di com-prensione e di generare amore che il corpo accede a se stesso, a ciò che gli è più proprio”. E’ solo nell’esperienza dell’andar fuori, nel sentirsi visto, accolto, riconosciuto che il corpo, in comunione con l’altro, si fa finalmente immagine. Perché desiderando l’alterità rinnova il suo stesso concetto di unità. L’arte, dunque, si fa corpo. Una pratica politica? “CARE è un’azione poetica ma è anche e soprattutto un atto di resilienza. Ha a che fare col tempo che nell’atto della deposizione diventa fermo, trascurabile, quasi impercettibile. Non gli corriamo più dietro, abbandoniamo la frenesia del mondo. Solo così l’attenzione può lambire confini insospettati e il non-agire consentire l’accesso a percezioni sottili, primitive. Impreviste e inattese”. Un’estetica della relazione? “Un’arte della risonanza che incoraggi le persone a mettersi in movimento verso se stesse”. Ripenso alla “Cura”, a Battiato, ai precetti del sufismo. A quelle sospensioni eremitiche, a quei brevi ritiri dal mondo necessari per poi ritornaci. All’abbandono del corpo e all’anima, amorevole presenza, che ci guida sul sentiero del risveglio, della pienezza della rivelazione. La ricerca di Valeria partecipa appieno di quelle considerazioni confortanti, calorosamente accudenti. Non è difficile poi credere che tutto l’universo obbedisca all’amore.

foto: Ilaria D’Atri per CARE

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